RAMA, SE SEI ANCORA IN TEMPO, SCEGLI IL PARADISO di Giuseppe Campolo

La piccola Giorgia ha attraversato lo Stige, essendo da noi l’Inferno, per scaricare un po’ di migranti in canili da costruire nella purgatoriale Albania, dove i pensionati e quelli che hanno basso reddito, comprese le piccole aziende, non pagano tasse, mentre gli altri si adattano al 15% sul reddito; e basta.  Purgatorio? O forse la dorata Alba sarebbe candidata a Paradiso? Mi pare quasi l’Italia del 1950, in quanto a fisco.
Edi Rama è un uomo colto, guida il suo Stato con leggerezza e perizia: per lui e per la sua gente, il domani sembrerebbe roseo, come in posti che cerco e non conosco. Ebbene, egli abbraccia questo insulto dal grosso dirimpettaio per qualche motivo che non è la convenienza e nemmeno la riconoscenza, come invece lui dice. Da uno a cui devi riconoscenza ti fai sputare? No! Il motivo deve essere un altro. È la sua ansia di entrare a far parte dell’Europa che lo fa piegare! Ma lui lo sa che cosa è l’Europa? Vuol diventare una delle marionette di quel teatro? Non posso crederci!
Uno che vuol far parte dell’opera dei pupi non può che essere un pupo. Dio voglia che io mi sbagli. Egli dunque ha già un filo in testa, due fili alle braccia, due alle gambe. Che ne è del suo cuore? Dove hanno riposto i cuori 27 Nazioni? Anzi, paesi, come essi ormai sono obbligati a definirsi, ché Nazioni non sono più.
Rama, che hai nome di un dio in terra, abbi di lui pure l’ardimento: dichiara l’Albania neutrale e Stato Esperantista, il che, nel pieno essere svincolato e purificato, vuol dire che riconosci e dai rispetto a tutte le culture ed etnie, mentre doni alla tua gente una lingua franca universale, l’unica innocente e senza marchio di banche: l’Esperanto. Indicando così una soluzione e una speranza, produci un vero esempio di civiltà e di equilibrato modo di pensare al mondo, ai popoli e al futuro. Futuro che altrimenti è senza speranza.

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LE FIGURE

Sono rassegnato a fare la figura del troglodita. Ma se essere avanzato significa allinearsi, troglodita è una buona scelta.

Preciso che, di questi intelligentissimi, le astuzie sono tutte semantiche. Primo, non ammazzare. No no, volevo dire: per primo vogliono snaturare, nella nostra mente, il concetto di diritto e, di questo, l’equilibrata applicazione. Intelligentissimi: tanti ci cascano nei loro trabocchetti.

Intanto fanno equivalere diritto e libertà. Ti è vietato ammazzare? E allora non sei libero, è dittatura. Esempio assurdo forse anche per loro, ma non siamone tanto sicuri.

Sei gay, ne hai il diritto in quanto pederasta moderno, americano. Un uomo allegro, va’. Donnine allegre, omini allegri, tout va. Attenzione: gay si può dire, Cassazione insegna, e frocio non si può dire perché è un reato. Non è un reato dire puttana a una puttana. Le donne si possono discriminare!

Nessuno ti disturba, se non fai male ad alcuno, chiunque tu sia. Resta da stabilire, come per ogni cosa e per ogni essere umano, il tuo limite. Se sei maschio, non è che puoi coprire ogni donna che entra in un portone. La nostra libertà, ragazzi, è un valore, ma un valore calmierato. E invece oggi, sembra una bandiera che ognuno cerca di lavare col fango suo.

La libertà assoluta è solo una: non far male al prossimo. Non far male ai gay, ai bambini, alle donne e anche agli uomini, comincia a essere necessario dirlo. Essere uomini è sempre più difficile, ai tempi nostri. Non dimenticare anche: non fare male agli animali, agli alberi, alle acque, alla terra. Non fare male, questa è l’unica saggezza sociale.

Ora tu vuò fa’ l’americano, pederasta italiano: ti sei voluto sposare, vuoi anche per te questo diritto. Giusto! Più che un diritto, il matrimonio è un attentato alla libertà individuale, ma si giustifica con l’utilità sociale. E in quanto utile, le leggi rendono conveniente sposarsi. Tu pure vuoi tutte le agevolazioni del caso, come la coppia donna e uomo (una volta bastava dire coppia). Giusto, ma: resta da vedere se il tuo matrimonio è di utilità sociale. Se alla società serve sterilizzarsi, allora a te vanno tutte le agevolazioni possibili, che bisognerà negare a chi si arroga il diritto antisociale di fare figli. E i figli in surplus, occorre toglierli dalla circolazione, affidarli a voi per una istruzione moderna.

Escano allo scoperto. Dicano chiaramente che fare figli è antisociale! Dunque, c’è diritto a essere coppia gay e non coppia; diritto ad abortire, se ti è scappato. Quel frutto, non è che feto, zigote, non è niente; ma questo è stato già eroicamente detto. Il diritto della donna su carne sua, alto valore! Proclamato; e guai a contestarlo, questo rovescio. Ma il rimorso gravoso di cui qualche madre va dolorando per tutta la vita non lo contano i paladini del che. Quando la donna scopre di essere incinta è già una madre, lei lo sa.

La madre è figura sacra, l’essenza umana, è tutto il nostro passato e tutto il nostro futuro. Un pederasta non ha lo stesso valore; non voglio discriminare e potrei, ne ha quanto un uomo. Mi sta bene la figura del reazionario.

Chi vuol fare figura da cane, si accomodi.

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LA FINE DELLA MONARCHIA di Giuseppe Campolo

Il funerale della regina Elisabetta II è il funerale stesso della monarchia.
    Vi è rappresentata la potenza inglese, in tutta la sua magnificenza anacronistica; sembra una commemorazione storica, una parata folcloristica. Propinata sugli schermi del pianeta, permette di vedere tutte assieme persone di media caratura nelle condizioni di re, regina, principi e dignitari; una preminenza antica imposta con la violenza, sfrontatamente esibita ora che è scesa di lievitazione.
    Prepotenza e crudeltà, di cui i beneficiari si propongono innocenti, allo stesso tempo legittimi e buoni, buoni e di rango superiore a ogni altro essere di questo mondo. La figura obliqua di ogni monarchia è qui tutta evidente nello sfoggio della pompa. La regina viene più che santificata, per merito di nascita, allo scopo di accreditare la Dinastia.
     Pubblicamente si schiaffeggia, in modo solenne, proprio la democrazia, nel Paese che la vanta su tutte le altre, come vanta la supremazia della marina e di tutte le loro numerose spocchie.
    Che la Corona non sospetti che si sta suicidando a suon di musica sacra, nel tentativo di dare immagine cosmetica della sua grandezza, si può capire. Anche quelli che gli danno tanta eco non hanno contezza che milioni di persone stiano percependo l’assurdità di tal potere e della sua arroganza? O stanno preparando un bel sudario?
    Si pretende che la monarchia e la regina siano il cuore dell’amore universale. Cuore di guerre e cuore di sterline, stivali su tutte le razze. Razze che non esistono, secondo la scienza obbligata, che tutti gli uomini fa uguali tranne i regnanti, che razza sono a sé.
    La monarchia è morta, perché oggi muore nel cuore degli uomini.
    La monarchia muore oggi. Comincia l’agonia dei re.
    Fanno pena i piccoli in corteo.

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C’È DI MEZZO IL MARE di Ornella Mamone Capria

Tutto addobbato e preparato per i ministri del Vangelo di tutta Italia e per giornalisti famosi. Nel menu letto ad alta voce dal vescovo di Milano si capisce che la cena è luculliana: mitili, spigole, orate, aragoste, maiale, anitra, vitellino, cinghiale, pernici e contorni di melanzane, patate, peperoni, fagiolini, funghi porcini, formaggi, ricotta, dolci e vini.

Arrivano alla tavola imbandita due uomini in livrea bianca, vengono invitati dai prelati a non servire i singoli commensali e a poggiare sulla tavola imbandita le prime due grandi pirofile di vetro con coperchio in cui si intravedono nell’una molte fettine di maiale distribuite a cerchio inondate da olio abbondante, aglio, rosmarino e peperoncino piccante e nell’altra il famoso contorno calabrese pìpe patàt (peperoni e patate). L’odore si diffonde nella sala del ristorante I Cannaruti di Corigliano-Rossano, quella adibita a lauti pranzi, fatta di arazzi, dipinti e luci particolari. Il cannarùtu, secondo uno studioso del territorio, Martino Rizzo, è uno che fa lavorare molto il cannarùno, la canna della gola, e il cannaròzzo, la gola. Infatti cannarùtu significa ghiotto, goloso ed è un termine dialettale diffuso da Napoli in giù. Per il letterato campano Giambattista Basile nel XVII secolo «Lo cannaruto è ommo de bona vita». Attorno a quel tavolo presenziano tutti ommini de bona vita dalle papille gustative pronunciate che hanno, però, completamente dimenticato il contenuto della propria relazione, discussa con fervore al convegno qualche ora prima, dal titolo “Il Clima siamo noi”. Sembra che il menu, il tovagliato in lino, le posate, i piatti di porcellana segnino il confine tra le parole dette e le azioni propositive per l’ambiente, tra la rinuncia e l’accettazione, tra l’ambiguità e il vero essere; sembra che il consumo di cibo di quella sera non contribuisca a diminuire l’emissione del protossido di azoto e di metano. Sembra, sembra…

Il vescovo di Siena, interessato al Codex Purpureus Rossanensis, discute con il vescovo di Corigliano-Rossano sull’evangelario unico al mondo del V-VI secolo – capolavoro bizantino vergato in oro e in argento, corredato da quattordici miniature – ma allo stesso tempo punta gli occhi sulle pietanze e vede il coperchio dalla pirofila sollevarsi automaticamente e da esso schizzare come un razzo il sugo delle fettine sui visi dei giornalisti. Vengono colpiti Francesco, Maria, Elisa malcapitati giunti per scrivere un articolo sulle testate “La Gazzetta del Sud”, “Il Resto del Carlino” e “L’Osservatore Romano”; si alzano dai posti e scappano per cercare acqua fredda e neutralizzare quel calore bruciante. Intanto l’odore del contorno caratteristico del luogo è invitante. Si sente la voce degli infortunati giungere da lontano: «Stiamo bene, continuate a mangiare!».

I commensali sospirano insieme, non si sa se per la notizia o per la fame. Sua Eccellenza Reverendissima di Bari, Francesco de Bonis, quasi a ripetere il gesto della Santa messa e a officiare quel rito di passione, alza la bottiglia e cerca di versare il contenuto nel bicchiere del prelato alla sua sinistra ma esclama: «Dov’è finito il vino?».

Dalla parte opposta del tavolo si sente una voce: «Non ne esce nemmeno un goccio?». Un’esitazione così da consentire il divertimento: a tutti è sembrato vedere nella bottiglia il rosso vermiglio di Cirò.

Il vescovo di Corigliano-Rossano si guarda attorno: «C’è un ladro ubriacone o sono io ubriaco?». Nessuno asserisce

il contrario ma tutti gli invitati con nonchalance si riempiono il proprio bicchiere di acqua mentre l’anidride carbonica dell’aria sciolta all’istante la rende gassata. Che caldo! Intanto i camerieri con aria smarrita e mortificata si apprestano a portare altre bottiglie di vino ma tutte sono vuote, per cui si recano in cantina a ricercarne di piene. All’improvviso qualcuno si accorge che le fettine di carne si incollano l’una all’altra fino a formare il corpo di un maiale, con cotica rosea e dal grugnito reale.

Spaventati si guardano l’un l’altro. Poi, pensando a uno scherzo di Sua eccellenza Antonio Saraceno, il vescovo di Napoli, ridono a squarciagola come pazzi scalmanati.

Qualcuno dice: «Antonio, sei proprio un birichino, sei riuscito con la tecnologia a darci l’illusione di far comparire un maialino vero. Vuoi giocare con noi? Quale magarìa elettronica hai escogitato? Come hai fatto ad elaborare questo magnifico ologramma in 3D?».

Tutti o quasi conoscono le maestrie elettroniche e informatiche di Don Antonio. Tra guizzi e sollazzi si avverte pure il suo balbettio: «No, non so… no sta… to io!».

I prelati si divertono estraniandosi dal fatto. Non vogliono credere al prete burlone ma presto si accorgono dei suoi occhi impietriti. Nessuno di essi si volta più verso l’altro compagno, il maialino si scrolla di dosso l’olio e passeggia su ogni piatto lasciando l’impronta delle sue zampette, poi salta sulle cosce dei commensali, come se fosse stato nel porcile, va sul prelato di maggior peso e gli lascia sulle cosce un ricordino. Che schifo! Arrivano i camerieri, ignari di quanto fosse successo, con aria spavalda su un carrello è posizionata una grande ciotola trasparente con valve di mitili sbuffanti acqua salatissima a distanza di circa due metri e una rete di pescatore imbrigliante limoni e fiori, orate, aragoste e spigole.

Il maialino sembra essere scomparso ma si respira stranezza nell’aria. Ad un tratto si gonfia la rete del carrello e come un’onda gigantesca intrappola le teste e le braccia dei presenti. Ogni persona ha di fronte gli occhi convessi e brillanti di un vertebrato acquatico, sembra che ne sia diventato il riflesso, come a dire la frase di Franz Kafka «Ora posso guardarti in pace; ora che non ti mangio più». Ma quale pace! Sotto il tavolo, le gambe di ogni commensale sentono lo strofinio di peli e piume di qualche animale insieme al loro muggito, allo starnazzo e al grugnito; non si dimenano, hanno paura dei morsi o delle beccate. Si innalza, però, un farfugliamento di preghiere e le lacrime scendono a fontana mentre le pernici giocano sopra la rete a rincorrersi.

Qualche vescovo cerca di svincolarsi dalla rete, qualcun altro tenta di trovare il proprio crocifisso, altri il rosario, ma invano, le maglie sono troppo strette per liberare le mani. Intanto il caldo arroventa l’ambiente, circa 60°C in sala. Arrivano i giornalisti dalla toilette e i camerieri, ignari di tutto, si accorgono della situazione surreale e tentano di liberare “il corpo della Chiesa” ma il filo della rete è resistente a forbici e coltelli affilatissimi di cucina, e appena si avvicinano ad un animale (pesce o chicchessia) avvertono sul corpo calore e scosse elettriche. I camerieri scappano pensando ad una punizione sovrannaturale, i giornalisti iniziano a filmare e inviare tutto il materiale alle sedi giornalistiche. Intanto ogni contorno si inacidisce e quel fastidioso odore si diffonde nell’aria.

L’indomani tutta Italia leggerà in prima pagina i seguenti titoli: La Gazzetta del Sud – Dal convegno del progresso alla cena del regresso.

Il Resto del Carlino – Animali striscianti ed elettrici contro i vescovi d’Italia.

L’Osservatore Romano – La Chiesa digiuna per l’ambiente.

Chissà se i lettori avranno contezza di quanto sia effettiva-mente accaduto nella cittadina calabrese!

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LIBIDO di Giuseppe Campolo

Santa Natura, in te m’esalto, e all’anima
Un fremito mi passa alto e gentil.
Son tuo, son tuo, madre infinita: i palpiti
Dell’immensa tua vita io sento in me.
                                              Mario Rapisardi

Dall’acqua alla roccia, affascinante scrigno è la Terra. Sin dai primordi, l’eleganza d’ogni forma vegetale non perde spettacolarità graziosa nemmeno nella morte, che vibra di colori ascetici. Sembra opera di una Dea innocente, pacifica e benigna, capace di gestire ottimamente il circoscritto orizzonte che le fu appaltato.

Per la vita di carne, invece, la Natura si impegnò in esperimenti insani, come fosse un altro Dio, un Dio maschio, appunto, sconsiderato e impacciato; oppure Femmina, sì, ma resa isterica dall’azzardo di affrancare viventi dalla dipendenza stretta dal suolo. È forse nato allora l’anelito sublime, potentissimo e assurdo, alla libertà?

Che saggezza fu mai, farli semoventi, se le costò tradire il suo bel senso estetico? Le necessitò la scelta schifosa di far accogliere l’humus in seno al corpo, dove lo scrigno dei sentimenti fa orrore e l’elaboratore del pensiero sconcerta, montando una sorta di macchina da compost che azzanna, strazia e tritura con gusto raffinato, per inglobare esseri palpitanti a profitto di radici villose. Siffatte gentilezze educano persino Profeti, che incorrono nel lapsus, inavvertito, di stabilire sacro lo sgozzare e arrostire il capretto. La Demiurga, tutta psiche, con appropriato inconscio planetario, così proiettava i suoi demoni, impaludando l’alta meta comandata, il cui avvertito disagio, ineffabile, chiamiamo Tensione Spirituale.

Ne partorì di tutte le fogge e misure, per colmare ogni falla dell’architettura, assegnando compiti di pena e immondi, come se fosse un prototipo di scienziata priva scrupoli. Per moltiplicare, ricorse al fai da te del fiore sbandierato con sfrontatezza al vento, in muso all’ape, stupida carne (per fruitori più grossolani, rosa che non profuma)! Condannò la femmina alla fregola e alla meschina seduzione. Astuta e torbida, mascherò la verità delle viscere con ingannevole cosmesi, per indurre all’accoppiamento. Assicuratasi l’avvicendarsi in automatico, quest’ammirata Anima mundi butta nel suo ventre le allevate animuzze ancora nostalgiche di bellezza.

Qualche idea di dove andare a parare l’avrà avuta, e se la sarà data alla maniera degli alchimisti, suoi discepoli prediletti: una suprema pietra filosofale, incognita di adeguata altezza, un braccio più in là del suo possibile. Ma fece appena in tempo, per sfornare umani, prima di entrare in menopausa.

Nel mentre che siamo un presente che frana, Olistici ascrivono alla Santa Natura ogni sorta di perfezione. Essi s’ingannano per carenza di coraggio.

Non sapendo che farsi di pochi altri miliardi di anni, a esempio Suo, guerreggeranno la battaglia finale, umani e trans-umani, credendo si tratti di evoluzione.

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FACCIA NUDA di Luisa Di Francesco

(Taranto 20.03.2022)

Porto a spasso la mia faccia nuda,
le maschere non la riempiono
come la cenere non dà impronta
come il silenzio non elude il frastuono
come il pianto non uccide la sorte
e l’irrequietezza non inganna la morte
come l’elogio non corregge il biasimo
come Orfeo non incanta il sogno
e nell’ideale creato cerca posto.
Porto a spasso la mia faccia nuda
e il vero la svuota e la scava
come goccia scabra sulla pelle
come salsedine che erode i banchi
e attraversa le dune sospinte
come folata intirizzisce in brividi
come ghiaccio che ottunde dolori.

Ho i piedi nudi nel freddo,
portano la mia faccia senza volti
inattesa apparenza dell’essere
appartata resistenza dell’apparire
e avverto l’orgoglio di non fuggire
a questa mia nuda faccia esposta.

Lasciate che la mia faccia
confonda inaspettata
chi sempre l’ha celata.

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DAL DIARIO DI UNA RESISTENZA di Giuseppe Campolo

1

È dura impresa, per un autore che si trovi in piena scrittura di un romanzo, continuare a narrare la realtà parallela nell’incombere di quella presente, chiamata cronaca, da cui scaturisce costernazione e istinto di rivolta. Egli attenderà alla sua opera ormai con riluttanza, senza il rapimento necessario. È questa anche la mia condizione.

Non ho più nulla da mangiare, ieri sera ho divorato un piatto di patate. Dovrò ora andare, con sguardo forse folle o forse smarrito come ne vedo altri, in qualcuno di quei luoghi-mangiatoie in cui è consentito l’accesso a un non inoculato: unica libertà per ominidi allevati in batteria.

È oggi una data storica: è fatto obbligo di sottoporsi alla siringa se si ha cinquant’anni, più un giorno, fino a quello stesso della morte. È una sorta di ergastolo casalingo, inflitto a chi non vuol farsi violare.

Ho visto nella mia infanzia un bambino rifiutare il latte alimento altamente simbolico — a costo di punizioni. Egli era sempre più resistente, quanto più manesca diventava sua madre. Una mattina che assistetti io, quando si era raggomitolato in un angolo, affranto e affamato, lei lo strattonò, lo spogliò e lo spinse nudo sul balcone. «Alla vergogna, finché non me lo chiederai, il latte!» gli gridò con la sua voce acuta, che straziava soprattutto quando, rifacendo il letto, cantava “Vissi d’arte, vissi d’amore”.

Fuggii. Giunto al portone ancora furente, suonai il campanello e attesi. Quando ella si affacciò, le dissi: «Zia Aurelia, sei maleducata!»

Attraversata la strada, prima di varcare il portone di casa mia, che era di fronte, vidi da sotto in su mio cugino esposto al ludibrio. Ma non aveva un atteggiamento mortificato o vergognoso: assorto, prendeva il sole, dritto in piedi e spavaldo. Non guardò verso di me, ma fingeva di fumare. Con altrettanta fermezza, avrebbe oggi evitato la siringa, come allora aveva scagliato via la tazza, per quanto potesse contenere il suo bene. Mi pare di fargli onore, resistendo io.

Mentre tutti vanno in maschera, io porto a spasso la faccia nuda come lui esponeva il suo uccellino implume. E questo presente, saturo di benevolenze prepotenti che schioccano come fruste a ogni consiglio dei ministri, interferisce con il mondo che vado tracciando con la scrittura, svenandolo nell’anima mia. Queste due complessità si intersecano e si contaminano, guastandomi l’umore e il sonno.

Ormai meno la scrittura come altri porta a spasso il cane per rendere sopportabile l’infierire del tempo, con la differenza buona che non mi lecca la faccia. Per la prima volta, non scrivo in piena gioia. È un cattivo presagio?

2

Scoppia ora una vera guerra dove scorre l’azzurro Dnieper, per cui si piange anche qui, in Sicilia e nel villaggio mio. Scendo per comprare pane e broccoli, di mala voglia nel timore di incontrare la signora del piano di sotto rossa in viso e le tristi madri agli scaffali, addolorate come se i bimbi dell’estuario, del golfo, delle pianure, delle metropoli e degli asili fossero di loro appartenenza, benché esse stesse come tutti siano autrici di crudeltà quotidiane, modeste e terribili.

Io sono stupito della generale confusione mentale. Quelli che interpretano i fatti e con sicura precisione distinguono tra morte e morte, proprio essi mi spaventano a morte. Sembra che sia esecrabile estinguere un civile, mentre per logica di guerra sia legittimo fare secco un soldato, che dopotutto è un civile coartato e quindi doppiamente vittima. Forti del diritto de L’Aia, i commentatori individuano dove precisamente la belligeranza sconfini nel crimine di guerra, quando già la guerra è il crimine maggiore. Guerra! Disquisire sulle moderazioni che ne sancirebbero l’eticità non è un segno di pazzia?

Ogni rapporto umano è visto come una naturale e sana competizione per esistere, calmierata dalla forza maggiore della legge, in cui si sostanzia la nostra civiltà. Questo realismo crudo viene temperato con la provvidenziale trasformazione del Dio degli eserciti nel Dio dell’amore. Amore, praticando il quale è possibile infliggere i più atroci tormenti, ascrivendoli ad accidenti o a imperfezioni di esso a causa della nostra indegnità. Credo di capire quale sia la necessità di tale ammanto e non vorrei che se ne privasse la debole umanità; ma quello che non riesco ad afferrare è la difficoltà di mettere al bando il duello fra le nazioni, come si vieta senza grossi problemi fra gli individui.

O almeno, lo so: L’ONU non è affatto la magistratura suprema e libera che estende una giusta legge su tutti uguale, avendo i mezzi per farla rispettare.

Di conseguenza, ancora è legittimo il pretenzioso mestiere di analista geopolitico, che consiste nella pratica a distanza di una sorta di psichiatria sulle nazioni, per le quali si esprime la diagnosi senza produrre la prognosi.

Il mio dirimpettaio crede di averla: «Non c’è che l’Anarchia! Non ti dice niente che questa è messa al bando e la guerra no? La gente non pensa nemmeno na nticchia!» Che volete, ognuno dice la sua.

Io dico che, restando così le cose, non ci sia che opporsi, rifiutando anche il latte se viene dal tiranno. Ma, in questo caso, la resistenza efficace e nobile è sempre quella di Gandi? Chi glielo va a dire?

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TRANSUMANI di Giuseppe Campolo

comodamente felici, in perfetta illusione

Talvolta penso che si rifugia nella scrittura chi non ha abbastanza carisma per parlare in un gruppo umano, pur piccolo, senza essere interrotto fuori proposito, come se la sua voce non fosse udita. Chi scrive fa una sorta di tacitazione dell’interlocutore, la cui preponderante presenza egli non avrebbe modo di frenare. Forse c’è realmente questo tipo di scrittori e immagino di farne parte. Un tipo di scrittore il di cui libro si chiude dopo averne letto qualche rigo. Distante, astruso, alieno alla logica comune, noioso e infastidente. Se io, scrittore palloso, parlassi da un palcoscenico, vedrei gli spettatori lasciare la sala a uno a uno, a coppie e a gruppi. Mi accorgerei d’improvviso dei palchi svuotati. Tre o quattro spettatori rimarrebbero disseminati sulle sedie, come sassi troppo inerti per essere svelti e trascinati via dal defluire delle acque. Non sarebbero un pubblico, però, perché questo ha bisogno dell’afflato della vicinanza di tanti simili per vibrare all’unisono con la scena; sarebbero individualità emotivamente statiche, resistenti all’onda povera della ribalta. Per questo loro gusto dell’ostilità muta e ostinata, rimangono seduti. Su un tale palcoscenico occorre il coraggio dei fanatici, per restare.

Il volenteroso mio amico prova a seguire le improbabili vicende descritte nei miei libri, ma senza riuscirci; egli ha l’aspetto pacioso e prospero di un patrizio dell’antica Roma, e ama i romanzi storici che quel periodo ritraggono. In ciò, sono io a non capire lui: la mia volubilità non mi permette di reggere l’idea di una tale unica passione. Beata la donna sua, che se lo ritroverà sempre fedele. Egli è affidabile quanto io sono infido. Ma anche lui ha qualche incongruenza, una contraddizione interna che mi lascia perplesso, anzi spaventato come se celasse un gladio sotto la toga. Come spiegare infatti che egli sia cultore con uguale ardore della futuristica scienza dell’intelligenza artificiale? L’impero e il transumano vanno, per vie profonde che non sospettavo, in connessione empatica? Quelli che fuggono dal mio teatro formerebbero la platea dei transumanisti, in trasmigrazione per il futuro? Un futuro imperiale. I miei non-lettori sono i persecutori a venire della minore gente mia?

Se individui come me non-trans ne rimarranno, alla fine, e se non saranno così pochi e sparsi da non potersi incontrare al punto di doversi estinguere in solitudine, e avranno invece la possibilità di formare piccole comunità, allora dovranno trovare il modo di sottrarsi all’anagrafe, evitando di farsi individuare, contare, connettere, mettere in sicurezza digitale, nella vita e nella morte. Cosa difficile, più di quanto io riesca ad immaginare, dovendo essi giocoforza condividere il pianeta con le turbe orchestrate felicemente dal Continuum Cloud planetario. Essi sarebbero subito identificabili, essendo incapaci di accendere la luce elettrica con il semplice rivolgere lo sguardo alla lampada, che subito sorriderebbe loro di benevola luminosità, filtrata da frequenze dannose alla retina. La totale scomparsa degli interruttori li condannerebbero al lume delle candele e agli amplessi romantici di altri tempi e fuori moda. Benché confusi fra la gente che accede ai treni o semplicemente salendo un marciapiede, essi sarebbero individuati dai sensori e mandati, in un flash, nel mondo quantico. In sostanza, il pianeta apparterrebbe interamente ai felici integrati, dall’intelligenza amplificata al punto da sconfinare in quella degli altri, dalla memoria indelebile ma cancellabile a piacere, in modo da rendere inesistenti i momenti brutti o malvagi, siano i propri o quelli degli altri, come dei Governanti e Pope, Natura e Dei. Ecco che la morte stessa è sconfitta, essendo un concetto, un file reso autodistruggente con un semplice Strip HTML. Ma quel che più conta è che la memoria sarà identica all’esistere, non avrà perso alcun dettaglio cioè, tanto che ognuno potrà a piacimento passeggiare nel passato, comodamente e felice, in perfetta illusione.

Dove sta la vita? Dove la morte?

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LA TELA D’UN VIGANÒ di Giuseppe Campolo

e gli sberleffi meritevoli di studio

In tempi in cui necessita ardimento, petti orgogliosi e intrepidi sorgono dalla massa umana, senza temere per le proprie sorti. Che ce ne siano a iosa al giorno d’oggi tutti possono vederlo infiamma il mio entusiasmo.

Fra quelli però mi pesa non tutti sono disinteressati ribelli mi pesa e mi fa triste. E gran pena mi dà Carlo Maria Viganò, ragno tessitore. Non tenterò mai di sottrarre onore a un coraggioso: lui certo lo è. Ma è pure qualcos’altro difficile da definire, da decodificare. Almeno così sembra, stante il numero di desiderosi di libertà che gli si accodano, lo prendono a vessillo, lo vogliono usare come ariete o rompighiaccio dal muso d’acciaio o zattera che li porti in Parlamento.

Egli accoglie in pieno la tesi del progetto tirannico mondiale, ormai ben provata da arrischiati pionieri della storia civile; ma per metterla al servizio di un alternativo dominio, che è d’obbligo chiamare teistico. Pagherei per accedere al suo retro-pensiero. Ma egli è stato addestrato alla dissimulazione e ne è un maestro. Ma, chiedo, egli pensa o volponeggia? Questo è l’inglorioso mistero.

Mentre sembra che dia ristoro ai bistrattati avvisatori del Reset infame, con il suo prestigio di eparca, li irretisce nella sua lotta particolare di potere, nel nome del dolce Cristo, che con le fazioni non c’entra nulla.

Vedo la delusione di un prossimo domani, il crollo psicologico di quanti oggi si fanno forza di lui, il nichilismo in cui cadranno, la loro prevedibile corruzione conseguente.

Tra i rivoluzionari, ammirevolmente composti o inesteticamente scomposti, neanche tra i filosoficamente atteggiati si vedono meditazioni profonde su un assetto più razionale del mondo e, alla fine, più giusto. Si tratta sempre lo dico con un certo spavento della lotta per sostituirsi al potere vigente.

Sarò disattento. Non ho sentito qualcuno che si domandi della vera utilità dei partiti, per esempio. Li legalizza, è vero, la Costituzione. Ma io non dico che siano illegali, dico soltanto che essi perpetuano il malcostume delle fazioni che lottano per il potere. Non si dovrebbe riflettere sulla opportunità o meno di togliere loro legittimità? Del bene pubblico chi è veramente deputato?

Se i Parlamentari fossero eletti fra una lista di auto-candidati, non sarebbero essi più liberi di ragionare su ciò che è meglio fare nell’interesse collettivo?

Gli sberleffi che avranno (e hanno avuto) queste ipotesi di studio che non meritano considerazione, non dovrebbero essere oggetto di studio?

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L’UOMO BELLICOSO di Giuseppe Cmpolo

Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto. La mielata visione poetica di Ludovico Ariosto è ormai molto lontana dalla grossolana rappresentazione del contrasto di armi e di amori che ne danno ora i monopolizzatori dell’arte scenica.

Eppure il nostro tempo si avvicina a quello, dovendo di nuovo l’arte servire a un padrone, Amazon sia, oppure Netflix. Ma questi moderni feudatari non chiedono più il raffinato linguaggio, con grazia e misura, per esserne deliziati essi stessi, come i potenti di allora; dall’artista pretendono semplicemente di involgarire il volgo e, soprattutto, di continuare a rendergli certo che, della condizione umana, l’intrinseca immanenza sta tutta nella cruda lotta.

Quell’ebreo che si ribellò, non a Cesare ma alla declinazione della realtà umana in senso bellicoso, fu considerato più malfattore di un comune malfattore, stante il fatto che quest’ultimo è coerente con la dinamica accreditata. Accreditata così tenacemente e senza tregua, che essere pacifista equivale a essere un bel cretino. Cosa c’è infatti di interessante, di là della contrapposizione, di là della dialettica del bene e del male, dell’attaccante e del difensore, del conquistatore e del conquistato? Senza questo non c’è storia, non c’è umano! Siamo in un western! Tanto potentemente è stata impedita l’area psicologica e sociale che adombrava il subito Giustiziato! E si sono oculatamente affrettati a darlo in mano ai teologi, per farne un paladino, un simbolo, l’emblema per eccellenza del bene, in nome del quale crociare in ogni modo, tradendolo, radicalmente sconfessandolo, interamente sovvertendo il senso di ciò che aveva indicato.

Ma ora che abbiamo esplorato tutto il campo del dissentire e forse ci si vorrebbe distaccare ecco che i detentori del potere se ne spaventano e provvedono: assoldano gli artisti del cruento, inventano nemici invisibili per indire nuove crociate mediatiche, finanziarie, sanitarie, per creare e scatenare fazioni.

L’odierna committenza della letteratura e della predominante arte cinematografica (che inizialmente scatenò liberi e pericolosi artisti) ha ben resettato le possibili devianze, sopprimendo le librerie indipendenti e le industrie creative come quelle annidate in Cinecittà.

Non è mai stato possibile sperimentare l’area dell’armonia, tanto che pare non possa avere contenuti. Quasi non ne ha, infatti. Contro la possibilità che se ne potessero immaginare, sono state puntate tutte le frecce della storia.

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