Da “IL BELLIMBUSTO” di Giuseppe Campolo

Esistono ancora rari locali commerciali, le cui caratteristiche li farebbero credere più propriamente diffusi in epoche medievali. Chi non ne ha visti, li immagini dei veri e propri antri grigi e fuligginosi, le cui profondità parrebbero inesplorabili e la cui merce ovunque sparsa non è catalogabile. Collocati in periferie di città italiane e della Sicilia in particolare, visitarli è solo un’esplorazione in territorio ignoto, un’avventura senza meta. Essi sono la versione infernale dell’ipermercato: all’ordine è sostituito il disordine; al logico, l’illogico; alle ragazze assistenti delle vendite, cafoni in tuta. Nulla è ciò che appare: l’antico è solo vecchio; il nuovo, refurtiva. Tutto ha il colore della polvere, eppure sono locali alla moda. Ce n’è uno a Messina, in Via Della Tolleranza. Lo distingue un cancello ferruginoso sempre aperto; un portone viene spalancato la mattina e chiuso la sera. È l’antro di un rigattiere? Se così vi piace!
Sono ambienti democratici, isole extraterritoriali dove i ceti sociali non esistono e le signore, che al bar o nei magazzini non incrociano lo sguardo con nessuno, conversano affabilmente con cameriere e muratori, tutti affratellati dalla comune fede in una dea innominata che permetterà loro di comprare per pochi spiccioli il pezzo raro che nessuno ha compreso. Scogliamiglio ciondolava fra la mercanzia come un comune mortale, perché lì i poliziotti pure frequentano, ma non in veste di poliziotti. Un posto come quello non può non esistere, come non può non esistere un lato oscuro in ogni persona; Kaos è il suo nome, scritto in nero su una tavola bianca. Si era chiamato Caos una volta, poi fu modernizzato.
Scogliamiglio osservava da tutti i lati un oggetto curioso, e ora lo stava guardando da sotto in su.
– Vorrebbe sapere cos’è? – Gli chiese un signorotto dall’espressione tanto arguta che gli faceva sospettare preludesse a una burla.
– Forse sarebbe più intelligente non desiderare di saperlo, – rispose nelle difensive Scogliamiglio.
– Potrebbe, apprendendolo, esserne edificato, invece. Noi non abbiamo la più pallida idea di ciò che c’è nelle viscere delle macchine d’ogni tipo che popolano ormai questo mondo. Che ne sappiamo noi di cosa c’è dentro un robot industriale che mette viti e fa buchi, a cui poi dà una fresata, in un pezzo del motore di una locomotiva?
Ma lui non aveva curiosità di nulla che riguardasse le viscere di chicchessia e di qualunque cosa. Era l’uso che l’incuriosiva, di quell’oggetto dalle forme strane e incomprensibilmente allusive. Gli ripugnava l’idea che invece non fosse affatto un oggetto. Ed egli, in quel luogo in cui sfugge ogni senso, veniva a cercare una risposta che tutto il commissariato non sapeva trovare in luoghi propri. E la vera ragione per cui s’insinuava fra oggetti senza numero, panche, tavoli e scaffali, era di riuscire a imbattersi, senza cercarlo, nel Monco. Non aveva mai capito perché gli fosse stato affibbiato quel soprannome, visto che camminava benissimo e aveva due nerborute mani prensili. E finalmente lo vide dirigersi verso di lui, emergendo dalle profondità.
– Ti posso suggerire qualcosa, se mi dici dove vuoi metterlo. – Il Monco dava del tu a tutti, nessuno se ne adontava.
– Non mi serve niente, ma ho desiderio di comprare. Guardo, e niente mi piace.
– Quando non piace niente, è segno che è una buona giornata. Due cose possono succedere: o che risparmi soldi, non comprando niente; o compri qualcosa di cui non ti pentirai mai. Vuoi qualcosa per tua moglie? Per te? Qualcosa da usare in cucina, da sistemare in salotto, in bagno, in camera da letto? Da mettere sul pavimento? Sui muri?
– Per i muri hai pure qualcosa? E che cosa?
– Un arazzo!
Scogliamiglio negò con la testa. Disse:
– Un unico pezzo di muro avrei libero, ma non è adatto a un arazzo. Un pezzo tanto – e indicò la dimensione approssimativa allargando le braccia – giusto sopra la testiera del letto.
– Tu vuoi un miracolo. Ma i santi sono avari. Sono come i ricchi: fanno l’elemosina. Eppure sanno che tanta gente è infelice e tanta muore di fame.
– Ma tu lo puoi fare? – Chiese Sogliamiglio.
– Se lo puoi fare tu, lo posso fare io.
– Non sono né santo né ricco, perciò i miracoli li faccio ogni giorno, e tu lo sai. Anche questo posso fare!
E tutti e due sapevano di che miracoli stavano parlando. Di ciò che si fa fuori da ogni regola ed è il maggior bene e il minor male possibile. Essi erano un punto di congiunzione di due estremi sociali, di due anomalie; e si comprendevano alla perfezione. Un connubio eterno, in terra e in cielo. Il Monco lo invitò a seguirlo, concludendo il loro particolare ragionamento.
Lo guidò nella penombra, in fondo, fino a una porta scura, oltre la quale lo scenario mutava di colpo: luce e uffici illuminati di stupefacente pulizia, con scrivanie sormontate da computer dai grandi monitor piatti. Il Monco gli si rivolse e disse:
– È l’ufficio contabilità e di carico e scarico: cinque impiegati.
Poi si fece seguire per un breve corridoio e quindi imboccò una scala a chiocciola. Scesero in quel che sembrava un garage, ma non c’erano macchine, solo qualche sacco di cemento e dei mattoni accatastati. Mentre lo attraversavano, il Monco schiacciò un piccolo telecomando e il muro di fronte si aprì perché in effetti era un cancello. Accese le luci. Se sopra era l’inferno, lì sotto era il paradiso. Tutto risplendeva d’oro e di cristallo. A pochi era permesso entrare e vedere, perché pochi erano in grado di capire regole non scritte. Neanche Scogliamiglio vi aveva mai messo piede e comprendeva ora che gli veniva fatto “onore”. E sbalordiva:
– Ma da dove entra ed esce tutta questa roba? Come non colpisce l’occhio l’intenso traffico che, devo presupporre, determina?
– Ma dal portone di via Garibaldi, accanto al bar, no?. La merce entra ed esce con il furgone per i rifornimenti del bar. Si chiama Bar Dolly, ma è mio, cioè di mio figlio Brasi; anche il palazzo è mio, cioè di mio genero, mia cognata, mia suocera, miei due nipoti e Nino, figlio adottivo di mio zio Nicola e di mia zia Nannina. Ed è logico che prelievo e consegna della merce avviene a domicilio. Il furgone rientra al deposito della ditta di spedizioni Misasi, sempre mia, cioè della figlia di mia zia Agata. Viene scaricato e ricaricato. I mezzi fanno consegne e prelievi a domicilio.
– Ma la gente come compra? Qui non vedo nessuno!
– E nessuno devi vedere. Vieni, ti faccio visitare il nostro centro commerciale. Vendiamo e compriamo da tutto il territorio nazionale. L’impero del Monco!
Il “centro commerciale” sembrava una copisteria, a giudicare dai macchinari, un ospedale a giudicare degli uomini e delle donne che operavano in camice bianco. Il Monco riprese a dare spiegazioni a Scogliamiglio come se stesse parlando con un collega industriale, o come il direttore della Fincantieri avrebbe potuto illustrare l’azienda al ministro dell’economia.
– Ogni articolo viene fotografato o scansionato e archiviato in una cartella numerata, che fa parte di un catalogo in perenne divenire. Così come fanno capo a noi qualche migliaio di fornitori, tu m’intendi, altrettanto noi siamo collegati con oltre centoventicinquemila clienti, ai quali facciamo le offerte secondo le loro caratteristiche gestite da un sofisticato software continuamente perfezionato dai nostri programmatori. Te lo saresti aspettato a Messina? Sarebbe stato lo stesso nel tuo paese, non è importante il posto; ma io sono di Messina. Tu davvero potresti credere che l’economia di questa città si può reggere sugli impiegati e sui poliziotti? Non vedi che non ci sono più negozi? Non ci sono artigiani. E dove sono i cantieri? E le industie? La città pare morta, e invece è viva, ricca per economia sommersa. Conta le automobili costose, le ville al mare, i viaggi oltre oceano. Caro mio, i poveri sono la facciata modesta di una vasta ricchezza mimetizzata. Quando il popolo è perseguitato, costruisce catacombe, caro Scogliamiglio!
– Vedo quanto è piccolo il mio problema, di fronte all’immensità che ti appartiene e descrivi; e mi meraviglio che mi dedichi tempo.
– Questo non lo dovevi dire. Il Monco non è mutilato nei sentimenti. Per il Monco vengono prima di tutto le persone vere; e prima degli affari i miracoli, che sono l’anima degli affari. Andiamo a fare i nostri miracoli.
Il monco parlò per qualche momento all’orecchio di una signora grassottella e dall’aria bambina. Questa sedette al pc, smanettò un poco e fece un cenno a qualcuno, non si capì chi. Poi tornò al suo lavoro. Qualche minuto dopo arrivò su un carrello il San Girolamo, falso d’autore. Il Monco stesso lo raccolse e glielo porse. Scogliamiglio lo tenne in mano, osservandolo come se fosse un papiro incomprensibile. Si guardarono poi seri negli occhi. Allora il Monco gliene liberò le mani, poi disse:
– Ho capito: miracolo incompleto. Occorre sedersi per un caffè, non è vero?
Non attese risposta. Si avviò verso una porticina, entrarono in una specie di ampio studio con un’enorme scrivania in mogano e sedie in pelle. Un inserviente dal caratteristico volto peruviano e portamento da dignitario si presentò automaticamente. Il suo vestito bianco in stoffa morbida gli dava un’aria strana di sudditanza e d’autorità
– Iter, caffè e piparelli! – Ordinò il Monco. Che era sui cinquant’anni, aveva la faccia magra e segnata, si sarebbe detta di un marinaio se fosse stata anche abbronzata. Poi si rivolse al suo ospite, guardandolo serenamente.
– Cosa ti serve veramente? Altri oggetti? No! Ti servono informazioni.
– Di oggetti mi servirebbero i gioielli rubati insieme al quadro. Ma hai ragione, le informazioni sono più importanti.
– Ma che fai? Non prendi il caffè? E i piparelli? Guarda che questi non sono i piparelli duri che trovi in giro. Sono i cosiddetti quaresimali siciliani. Io questi uso, anche fuori dalla quaresima. Me li faccio fare apposta. Sono nutrienti, digeribili, gustosi. Io non mangio pane né dolci, solo i miei speciali piparelli.
Scogliamiglio chiese:
– Vorrei che tu mi spiegassi perché stai affidando a me tutto quest’immenso retroscena, questo mondo che fin ora non avevo sospettato. Ti credevo parte di un piccolo sottobosco; e invece mi fai scoprire tutta una foresta. Ma che dico? Alla mia vista appare tutto un continente! Perché tanta fiducia? Essa dovrà pur avere un prezzo. Potrò sostenerlo?
– Che domanda! Noi facciamo miracoli, l’hai detto. I miracoli sono facili da fare; a volte sono non fare niente. Non devi fare niente, infatti. È il tuo lasciapassare. Non fare niente, non dire niente. L’hai timbrato diverse volte; e finalmente mi è bastato. Avrai i gioielli. Non che io sappia dove siano o chi ce li abbia in questo momento, ma li avrai. Dove li mando?
– Insieme al quadro, mandali in chiesa con il tuo corriere, indirizzando a “Chiesa San Girolamo, per chi appartengono”. Dimmi tutto sul ladro o sui ladri. Il mio miracolo è garantito.
– Lo so, neanche a dirlo: silenzio e quiete. Le virtù ascetiche!
Il Monco aveva frequentato fino alle scuole medie con scarso profitto e grande noia. Ma il saper leggere fu sufficiente alla sua curiosità per le scorribande nello scibile, che ne fecero un curioso esemplare di sapiente ignorante. Apprendere senza guida lo condusse a una forma di anarchia mentale, e a interpretazioni della realtà non ortodosse. Egli credeva di essere un illuminato. Ma non era pazzo, visto che una numerosa schiera di persone tale lo credeva, compreso Scogliamiglio. E non era un eccentrico, perché non ne aveva la vacuità. Chiese:
– Tutto qua? Ti piacciono i miei piparelli? Vuoi un altro caffé?
– Buonissimi. E un altro caffè ci vuole.
Stava per allungare la mano alla caffettiera per versarselo, ma il Monco lo precedette e lo servì con gran garbo.
Scogliamiglio continuò:
Quello che mi hai accordato, è solo una parte del tuo miracolo. Voglio sapere ben altro.

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