COME CAMBIA IL NOSTRO PAESE SECONDO IL CENSIS di Antonella Giordano

Puntualmente ogni anno il CENSIS, il Centro Studi Investimenti Sociali fondato nel 1964 che svolge attività di ricerca socio-economica, pubblica il «Rapporto sulla situazione sociale del Paese».
Il Rapporto, a partire dal 1967, esprime l’impegno di rendere disponibile uno strumento di analisi e di interpretazione dei fenomeni, dei processi, delle tensioni e dei bisogni sociali emergenti.
Fin dalla prima edizione – quella di dicembre 2018 è la 52esima – il Rapporto mantiene la stessa struttura.
Il Rapporto si apre con le Considerazioni generali. Le Considerazioni generali di abbrivio propongono un modello interpretativo che ripercorrendo su base analitica gli anni precedenti offrono un quadro conoscitivo della continua trasformazione del Paese; nella seconda parte, La società italiana al 2018, vengono affrontati i temi di maggiore interesse emersi nel corso dell’anno: le radici sociali di un sovranismo psichico, prima ancora che politico, le tensioni alla convergenza e le spinte centrifughe che caratterizzano i rapporti con l’Europa, gli snodi da cui ripartire per dare slancio alla crescita. Nella terza e quarta parte si presentano le analisi per settori: la formazione, il lavoro e la rappresentanza, il welfare e la sanità, il territorio e le reti, i soggetti e i processi economici, i media e la comunicazione, la sicurezza e la cittadinanza.
Tra tutti gli argomenti trattati – assolutamente interessanti – alcuni sono percepibili a pelle anche se non si posseggono competenze socioeconomiche specifiche.
Tra i tanti quelli afferenti il territorio.
È sotto gli occhi di tutti il disagio abitativo aggravato dall’estrema debolezza del sostegno pubblico. Il Rapporto denuncia la carenza del patrimonio di edilizia sociale pubblica, che su tutto il territorio nazionale è oggi ridotto a meno di 1 milione di alloggi (contro gli oltre 5 milioni della Francia, ad esempio). Non solo la realizzazione di nuovi alloggi sociali è ridotta ai minimi termini (appena 4-5.000 unità all’anno), ma anni di vendite del patrimonio (poco meno di 200.000 le abitazioni vendute dal 1993 a oggi) hanno ridotto il già contenuto stock di alloggi sociali. In attesa c’è però una domanda inevasa enorme: almeno 650.000 famiglie in graduatoria. Nel 2017 gli sfratti emessi (che ormai in 9 casi su 10 sono riferibili alla morosità dell’inquilino) sono stati quasi 60.000, quelli eseguiti 32.000: in pratica in Italia ogni giorno lavorativo oltre 100 famiglie vengono sfrattate.
E ancora. Dal 2014 abbiamo in Italia 10 nuovi enti che si chiamano Città metropolitane. A questi se ne sono aggiunti altri 4 voluti dalle Regioni a statuto speciale. Territori ampi, ma con densità abitativa non certo da area metropolitana (470 abitanti/kmq in media, con un massimo di 2.630 abitanti nell’area napoletana e un minimo di 172 in quella reggina).
La variabilità infra-regionale è aumentata nell’ultimo decennio per tutti i principali indicatori socio-economici. Le regioni che divaricano al loro interno non sono solo quelle dove è presente un grande magnete metropolitano, che determina fenomeni di accentramento che possono incidere sulla misura della variabilità regionale complessiva. L’aumento dei divari interessa quasi tutte le regioni. Ad esempio, il Pil pro-capite mostra una variabilità media infra-regionale di 6.160 euro/anno, con un aumento di 750 euro/anno nell’ultimo decennio.
Le aree interne raccolgono il 60% circa della superficie nazionale, il 53% dei comuni italiani e una popolazione di circa 13,5 milioni di abitanti. Ma anche le aree interne possono essere più o meno marginali e dunque molto diverse tra loro. I comuni periferici e ultraperiferici sono 1.842 (il 23,2% del totale) e risultano maggioritari in alcune regioni, come la Basilicata (84,7%) e la Sardegna (59,7%), e sono molto presenti in Trentino Alto Adige (47,6%), Sicilia (44,9%), Molise (43,4%) e Calabria (40,3%). La popolazione presente in questi territori (circa 4,5 milioni di abitanti) evidenzia profonde differenze su base geografica. Nelle aree del Mezzogiorno si arriva al 15,7% (con una punta del 63,7% in Basilicata), nel Nord-Ovest non si va oltre il 2,6%. La dinamica demografica degli ultimi 10 anni è negativa per i comuni periferici e ultraperiferici (-2% a fronte di un valore complessivo nazionale del +4,1%), con punte di impoverimento demografico che superano il 10% in Friuli e Molise.
È più vivo che mai il fenomeno dell’emigrazione massiccia di studenti dai territori più economicamente marginali  verso i poli metropolitani del Centro e del Nord. Sono 172.000 gli studenti che partendo da una regione del Sud sono iscritti ad un corso di laurea in un’università del Centro-Nord (pari all’11% di tutti gli iscritti all’università), mentre sono poco più di 17.000 quelli che compiono il percorso inverso. Il saldo netto fra gli ingressi e le uscite in queste regioni, sin dalla prima immatricolazione ad un percorso universitario (laurea triennale o magistrale a ciclo unico), risulta molto negativo per alcune regioni del Sud (Puglia -35.000 studenti, Sicilia -33.000, Calabria -23.000). Le regioni in grado di calamitare la maggior parte degli studenti fanno registrare un saldo fra arrivi e partenze molto positivo: Lazio (+48.607), Emilia Romagna (+32.918), Lombardia (+24.449) e Toscana (+14.268).
Degno di attenzione è anche la situazione di benessere rilevata. La domanda di servizi trova oggi soluzioni nel «fai da te» delle reti di relazione familiare oppure sul mercato. Non basta aumentare il numero e la tipologia di servizi e prestazioni nel welfare, se poi non si creano le condizioni affinché le persone che ne hanno bisogno e diritto li utilizzino realmente. Il 52,7% degli italiani non sa a chi rivolgersi in caso di un problema di welfare. Il 44,9% si è rivolto a familiari e amici che già avevano affrontato il problema, il 27,1% ha fatto ricorso all’aiuto pagato di società specializzate, il 24,8% ha rinunciato a risolvere un problema perché non è riuscito a capire a chi rivolgersi. A fronte del 51,5% di italiani convinti di poter affrontare i problemi da soli, il 48,5% invece non è in grado di affrontare autonomamente le difficoltà.
La risposta migliore al disagio resta la creazione di nuovo lavoro vero, sostenibile, con retribuzioni appropriate. In alcune aree territoriali il disagio è più marcato: tra le province il cui tasso di occupazione presenta un divario rilevante rispetto al tasso di occupazione nazionale ci sono Reggio Calabria (-20,4%), Foggia (-19,8%) e Agrigento (-18,2%). Mostrano invece performance positive in termini di crescita dell’occupazione nel periodo 2013-2017 le province di Barletta-Andria-Trani (+4,7%) Siracusa (+2,5%), Enna (+4%), Caltanissetta (+3,4%), Palermo (+2,6%) e Napoli (+1,0%). Sul fronte dell’occupazione giovanile sono presenti dinamiche di restrizione nel periodo 2013-2017 che interessano le province di Bolzano (-2,2%), Sondrio (-2,8%), Cuneo (-2,1%), Brescia (-2,7%) e Verbano-Cusio-Ossola (-1,1%). Di fronte ad una geografia così specifica della creazione o meno di occupazione, anche le risposte di welfare non possono che modularsi sulle peculiarità locali.
Altro argomento che ritengo interessante è, infine, quello afferente l’evoluzione dei sistemi di comunicazione. Sul punto si legge nel Rapporto che i dispositivi della disintermediazione digitale continuano la loro corsa inarrestabile, battendo anno dopo anno nuovi record in termini di diffusione e di moltiplicazione degli impieghi. Oggi il 78,4% degli italiani utilizza Internet, il 73,8% gli smartphone con connessioni mobili e il 72,5% i social network. Nel caso dei giovani (14-29 anni) le percentuali salgono rispettivamente al 90,2%, all’86,3% e all’85,1%. I consumi complessivi delle famiglie non sono ancora tornati ai livelli pre-crisi (-2,7% in termini reali nel 2017 rispetto al 2007), ma la spesa per i telefoni è più che triplicata nel decennio (+221,6%): nell’ultimo anno si sono spesi 23,7 miliardi di Euro per cellulari, servizi di telefonia e traffico dati. E abbiamo finito per sacrificare ogni mito, divo ed eroe sull’altare del soggettivismo, potenziato nei nostri anni dalla celebrazione digitale dell’io. Nell’era biomediatica, in cui uno vale un divo, siamo tutti divi. O nessuno, in realtà, lo è più. La metà della popolazione (il 49,5%) è convinta che oggi chiunque possa diventare famoso (il dato sale al 53,3% tra i giovani di 18-34 anni). Un terzo (il 30,2%) ritiene che la popolarità sui social network sia un ingrediente «fondamentale» per poter essere una celebrità, come se si trattasse di talento o di competenze acquisite con lo studio (il dato sale al 41,6% tra i giovani). Ma, allo stesso tempo, un quarto degli italiani (il 24,6%) afferma che oggi i divi semplicemente non esistono più. E comunque appena uno su 10 dichiara di ispirarsi ad essi come miti da prendere a modello nella propria vita (il 9,9%). In più, il 41,8% crede di poter trovare su Internet le risposte a tutte le domande (il 52,3% tra i giovani).

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