Giuseppe Campolo: L’ERBETTA

Agricoltore mancato, nei tre vasi sul balcone che ho seminato a radicchio pomodoro e sedano, i primi esseri viventi visibilmente nati sono erbette dicotiledoni di qualche millimetro, che io, prima incerto e poi risoluto, strappo via, contemplandone le diafane radici zigzagate a mo’ di fulmini, selvatiche creature avversate dall’uomo e di cui pochi conoscono il nome, le più tenaci, quelle che spuntano nelle fessure del cemento, quelle che immagino resisteranno a tutto e saranno presenti dopo la scomparsa nostra e delle forme di vita che abbiamo asservito.
Su, in terrazza, in quel che non oso chiamare giardino pensile, lavoro un po’ intorno all’uva, i carciofi, gli asparagi bislingua, il gelso nero, e contemplo i tappeti di fragole di bosco. Ed ecco che scorgo due ciuffetti monocotiledone che si sono sviluppati a tradimento. Strapparli però è maggior delitto che un aborto: sono esseri pienamente formati, protesi nell’aria alla luce con personalità orgogliosa, anch’essi sicuri, nel loro coraggioso verde, di un proprio diritto a vivere. Ma i vasi sono miei! Il diritto di proprietà sancisce la potestà sulla vita e la morte? Sono dei ladri a spese delle mie fragole? O pur essi son miei? E dunque sacri e, benché non commestibili, bellezze adottate, figliolanza mia, preziosità capricciosa del mio giardino! I diritti impliciti nel concetto di proprietà mi pare diano luogo anche a quell’argomentazione che ho sentito: giusta l’inviolabilità della vita, il divieto di caccia è conseguenziale, salvo che nella propria tenuta e tranne che per gli esemplari che alleviamo e che quindi possiamo macellare a piacimento.
Qual è il volto della civiltà, dal quale facciamo dipendere ciò che è lecito?
Non proprio un giardino, il mio, e per niente paragonabile a quello dell’amica, con villa che è quasi una signoria, a mille chilometri più a nord, non in vasi ma di terra nella terra, rigoglioso di alberi e fiori di ogni specie e foggia e dai colori bellissimi, che a uno a uno mi giungono la mattina su WhatsApp con la didascalia che può permettersi soltanto la sicurezza di una magnate: “Buongiornissimo!ˮ “Buongiorno!ˮ rispondo per lo più, con un po’ di disgusto verso me stesso, raramente trovando espressioni che soddisfino il senso estetico. Ma divago!
Questa pagina, quest’inizio di pagina e quanto seguirà, e anzi tutto quanto ho scritto nei miei anni, credo sia divagazione. Forse tutta la letteratura è una mastodontica, narcisistica, complicata e contorta divagazione, insomma: una pregiata impostura che caratterizza la nostra speciale disperazione. Un tormentato distrarsi dall’incubo che nulla di nulla comprendiamo.
Per cominciare, possiamo sapere perché ogni cosa è preziosa e al contempo precaria, sulla terra? La terra stessa e ogni stella e ammasso sono tanto importanti che hanno l’obbligo di esistere, ma poi devono sparire, come se a qualcuno desse a noia vederli ancora. O come se non ci fosse abbastanza spazio e abbastanza estensione temporale per contenere tutto, come se l’infinito non fosse sufficientemente infinito e ne risultasse la necessità dell’avvicendamento. E il senso è, dunque, far apparire a turno ciò che aspetta in sale d’attesa trans-cosmiche? Oppure la concessa grazia di esistere per un moccolo è la condizione necessaria per dar luogo all’avventura dell’evoluzione: suspence di uno spettacolo per immortali o esseri di modalità altre, per noi inimmaginabili, esseri di altre dimensioni? O in che esperimento siamo?
Ma questo mio larvato e insensato ragionamento vedo sconfinare nella fantascienza o nel campo della teosofia, le cui ipotesi alla fine hanno perduto ogni dinamicità e sono cristallizzate anch’esse in una dottrina, e dunque una teologia, la quale sempre, non riuscendo a superare le aporie, ha bisogno di ricorrere a una qualche Vergine Maria.
Questo sconfinato abuso strumentale della vita individuale, questo potere capitale diffuso, e la facoltà di trarre in schiavitù, sono spinte agli estremi nei corpi degli organismi superiori. Noi pensiamo alle nostre cellule come a parti di noi; esse sono noi stessi, non abbiamo nessun debito verso di loro, esse sono incoscienti e nulla sono per se stesse. Ma i biologi sanno, anche se poco ci fanno caso, non ci si può far caso, non si deve, ma sanno che esse sono, ognuna, ben complesse e distinte creature molto sensibili. Stipate nei loro lager di un muscolo, dentro a un osso nel suo midollo, mulinando senza sosta nel sangue, addette alle latrine del fegato e dei reni o incatenate nella mortificante fogna dell’intestino, sono ergastolani senza speranza. Sanno i biologi, sanno del meccanismo raffinato delle giornaliere condanne a morte a scopo di efficienza funzionale; sanno degli ordini di suicidarsi impartiti con stupefacente scienza a specifiche cellule: la tirannia nel nostro corpo è assoluta! Vivono e muoiono per il loro re e, alla fine, assieme a lui, in ecatombe. Simile spietata signoria esercita la Specie su di noi. E di essa siamo figli. Siamo questo struggimento.

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