UN CHICCO DI RISO, DUE CHICCHI DI RISO di Lucilla Trapazzo

(Pensieri sparsi – scritti durante “Counting the Rice” – performance pubblica ideata da Marina Abramovic – Centre d’Art Contemporain di Ginevra – maggio 2014 – design di Daniel Libeskind)

Mi sveglio alle cinque, il viaggio in treno da Zurigo è lungo. Per più di tre ore la Svizzera scorre e prende forme diverse al di là del finestrino, l’azzurro dei laghi, il viola delle montagne, distese di erba e di fiori che esplodono. Ginevra odora di Francia e cannella, la lingua si scioglie sui denti. Il Centro di Arte Contemporanea è un enorme cubo grigio di calcestruzzo inaccessibile, ne percorro tutto il perimetro prima di trovare l’entrata.

Sono tra i primi ad arrivare. Ci fanno indossare un camice bianco, asettico. Mi tiro su i capelli. Come me, gli altri arrivano e sembrano sperduti. La voce di Marina Abramovic ci accoglie, ci racconta visioni e ci accarezza illustrando il progetto. Per le prossime sei ore ci aspetta un sedile di legno spartano, un mucchio di riso e lenticchie, nient’altro.

Mi guardo intorno, cerco un posto che sia giusto per me. Ho bisogno di luce, voglio sentire il mio posto vibrare. Sul tavolo riposano i grani di riso e di lenticchie, un foglio di carta e una penna. Ho sei ore per dividere e contare. Tocco i chicchi con le mani, quelli bianchi e quelli neri, attendo una connessione sensoriale, un metodo. Separerò i colori, ho deciso. Il nero mi afferra lo sguardo. Comincerò col contare le lenticchie. Divergono in forma e sfumature di colore. Mentre divido il bianco dal nero, noto che molti chicchi di riso sono spezzati. Cosa fare con i chicchi spezzati? Poi, ci penserò poi, ora conto solo le lenticchie.

Il senso è nel gesto: 1-2-3-4-5-; 10-20-30-40-50; 2×50; 5×100; 2×500… i numeri sono qui, esatti e finiti, divisi a mucchietti sul tavolo.
Le mie mani sono vanghe ed aratri, e lavorano insieme. Non sono io che le muovo. Sono diventate un’entità a sé stante. Una – la sinistra – divide, mentre l’altra – la destra – conta.
Solo questo accade, la conta. Non ci sono assoluti, non ci sono metafore, né profondi significati filosofici. Il riso è riso, le lenticchie sono lenticchie e io ne conto ogni grano, in francese e in inglese e il tempo trascorre.

La mia mente ha bisogno di ordine e geometria. Lo spazio si allarga e improvviso mi accade l’odore del legno, inspiro più a fondo e lo accolgo. In modo automatico divido le lenticchie in piccoli mucchi da cinque e da dieci, poi da cinquanta e da cento e per ultimi creo i mucchi da mille. Ecco il mio ordine, l’armonia dei numeri apre la mente.

Ho detto no alle metafore, ma curiosamente non smetto di pensare alla Cina -abbastanza banale – mi dico. Non penso alle stelle, agli atomi, alle monadi, né ai grani di sabbia, penso ai contadini cinesi, alle loro spalle ricurve nei campi inondati, alle loro mani che lavorano fino alle piaghe per una tazza di riso, forse più profumato di questo.

Costruisco autostrade sul tavolo e vi lascio scivolare attraverso le mie pile da cento. Le ore si accumulano insieme alle pile. All’improvviso ritorno alla mia lingua d’infanzia, ora conto solo in italiano. Sono immersa così tanto in questi numeri, in questo calcolo che i miei occhi percepiscono gli errori della mano prima che la mente li registri. La mente smette di pensare e si abbandona a questa forma elementare di meditazione attiva. Ho bisogno di ridurre lo spazio, divento più piccola e stringo le braccia. Sono arrivata a duemila lenticchie.

Uno stormo di uccelli fuori della finestra cinguetta e all’improvviso rompe il silenzio della stanza. Sono confusa e fremente, mi sveglio. Sento l’urgenza frenetica che monta, comincio a vedere la fine dei granuli neri, gli istanti che corrono. Voglio finire al più presto con le lenticchie, voglio, voglio cominciare subito a contare il riso. E poi voglio giocare, voglio mescolare tutto di nuovo, voglio disegnare e scrivere frasi coi grani di riso.

Ecco l’ultima lenticchia. Sono arrivata finalmente al mucchio di riso. Decido di contare anche i chicchi spezzati, purché non siano troppo piccoli. In questa situazione, in questa performance con camice bianco e silenzio, posso considerare etico contare i chicchi spezzati? Come decido quando sono troppo piccoli per essere contati o abbastanza grandi da non essere scartati? La mente è un ginepraio di domande.

E all’improvviso mi arriva il pensiero. Comprendo e rido. Non ha alcuna importanza! È solo il processo in cui sono immersa che conta, qui e ora. È esilarante questa epifania, mi rende libera. Sono solo io, qui – ora, in questo spazio, seduta a contare, da sola eppure connessa con gli altri, quelli che come me contano in silenzio con gli occhi abbassati e quelli che in modo clandestino sono entrati e ci osservano, e anche con questi sedili di legno e con questa stanza dalle grandi finestre e oltre, con gli uccelli che ancora cinguettano e con lo spazio, lo spazio, la luce. Siamo qui, come questi chicchi di riso insieme e divisi. Una moltitudine di grani differenti.

Il tempo non ha più dimensione. Contare diventa leggero, semplice, veloce. Quel che importa è soltanto la gioia e questo nuovo pensiero.
Io – sono – questo.
Sorrido e conto, io conto.

Lenticchie: 2584
Riso: 6504

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